Il Diluvio Universale di Paolo Uccello nelle pagine di Mary McCarthy

[…]  Il tema della maggiore opera di Paolo Uccello, eseguita per il Chiostro Verde di Santa Maria Novella, è il Diluvio Universale. In questo affresco straordinario […] la fantasia dell’Uccello attanaglia la mente come un sermone in immagini, con esempi tratti dall’esperienza comune, e un evento biblico appartenente a tempi remoti viene dotato dell’urto immediato e parlante di una profezia. Qui vi è una di quelle grandi visioni di giudizio di cui solo i fiorentini, da dante a Michelangiolo, furono capaci – visioni che traggono la loro chiaroveggenza da una passione unitaria, l’amore per una città o una nazione, come fu per gli antichi Ebrei, e da una ricchezza <<documentaria>> o scientifica di descrizione; ad esempio l’inferno dantesco è ancora più impressionante per l’elaborata geografia e geologia del suo resoconto. Dante <<esplorò>> l’inferno e lo trovò pieno di fiorentini; quando un prelato criticò i nudi del Giudizio Universale di Michelangelo lo aggiunse prontamente all’affresco, raffigurandolo nell’inferno, con le corna e un serpente arrotolato intorno ai lombi , e quando il prelato andò a lamentarsene col papa (Paolo III), il papa rispose: <<Se il pittore vi avesse mandato in purgatorio, avrei fatto del mio meglio per liberarvi, ma non ho alcuna influenza nell’inferno […]>>. […] Allo stesso  modo il Diluvio Universale di Paolo uccello è una pittura naturalistica, fondata senza dubbio su una esperienza fiorentina, di un mito biblico.
Esso è costituito in due parti, con l’arca di legno, ripetuta due volte, in prospettiva, ai due lati del dipinto, bilanciante la scena frenetica. A sinistra l’arca galleggia sulle acque, con figure disperate che si aggrappano ai suoi fianchi; sulla destra, l’arca si è voltata ed è più quieta, avendo le acque cominciato a placarsi. Le due sezioni paiono avere u n punto in comune e non vi è una linea netta di separazione fra i due episodi, fra il <<prima >> e il <<dopo>>. La compressione del tempo, che confonde in un solo evento simultaneo i lunghi mesi dell’inondazione, aggrava il senso di claustrofobia dato dalle pareti convergenti delle due arche. Dio è assente dallo spettacolo, sul quale gioca una livida luce, e l’uomo, imprigionato là dentro, estromesso dalla salvezza (simboleggiata dall’arca), rivela la sua natura di dannato, non per una volta, ma per tutta l’eternità. Nello stretto spazio fra le due arche, l’acqua è ingorgata da un ammasso di cadaveri, che impediscono il movimento dei vivi. A destra, un corvo becca gli occhi di un fanciullo annegato, mentre a sinistra un uomo nudo su un cavallo natante (come un centauro) leva la spada contro un bel giovane biondo, intorno al cui collo è scivolato il mazzocchio, come un serpente bianco-nero arrotolato. Un rozzo e muscoloso bifolco si è impadronito di un barile e cerca di tirarsi su, dando una sciocca occhiata in tralice; e un essere nudo su una zattera caccia via un orso con una mazza. Più lontano, una querce è stata colpita dal fulmine, e la sua chioma si è scaraventata contro l’arca. In primo piano a sinistra, un uomo dalle vesti fradice, aggrappato ai bordi dell’arca, appiattito contro di essa, guarda di sghembo, come circospetto e furtivo, i suoi piccoli che si dibattono nell’acqua sottostante.
A parte, su una piccola isola di terra asciutta, sta una figura maestosa, aristocratica, ben rasata, con una mano levata in rispettosa preghiera; dagli ampi drappeggi della su aveste e dai nobili, rugosi lineamenti, promana una elementare sicurezza. Egli appare come una roccia grigia, una rupe lambita dalle acque, che non riescono ad erodere la sua massiccia calma scultorea. Fuori dall’acqua si protendo due mani ad afferragli le caviglie, e lo zotico nel barile lo guarda, attonito, ma l’austera figura non volge il suo sguardo indomito d’aquila dal punto dello spazio che sta contemplando, dalla Luce ch’egli vede e che sembra cadere su di lui, talché egli appare quasi fosforescente, mentre dietro e sopra di lui (nella scena seguente), la mano tesa del barbuto patriarca Noè, che sporge il capo fuor dell’arca per saggiare il tempo, suggerisce un beato acquietarsi dell’uragano.
Nessuno sa di sicuro chi sia questa misteriosa figura centrale. Molti critici ritengono si tratti di Noè, nel fiore degli anni, che si prepara all’imbarco sull’arca; altri obiettano che la figura non somiglia al barbuto Noè sbirciante fuor dalla finestra  dell’arca né al barbuto Noè degli altri affreschi del ciclo.
Ma se non è Noè, chi è? Uno dei figli di Noè? Ma non somiglia a nessuno dei figli dipinti nell’Ubriachezza di Noè, e la sua autorevole dignità esclude l’idea ch’egli sia qualcosa di meno del primo cittadino di un grande popolo. Si direbbe c’egli debba essere Noè, l’antenato leggendario del popolo italiano, scolpito in rilievo sul campanile di Giotto. Il barbuto Noè potrebbe rappresentare il patriarca, vecchio e devastato e santificato dal confino nell’arca, mentre l’uomo sull’isola asciutta potrebbe essere Noè nel colmo della virilità, uno dei giganti terrestri di cui parla il primo capitolo della Genesi, procreati dai figli di Dio con le figlie degli uomini. L’occhio e il magnifico naso ricurvo si ripetono in due visi. In ogni caso, egli è un fiorentino, un fiorentino quintessenziale <<che discese di Fiesole ab antico | e tiene ancor del monte e del macigno >> (Inferno, XV, 61).
Paolo fece una serie di affreschi per il Chiostro Verde (chiamato così per via della terra verde, sua materia favorita per affrescare). Vi erano una Creazione dell’Uomo e degli animali, una Creazione di Eva, una Caciata dal Paradiso, il Diluvio, il Sacrificio di Noè e l’Ubriachezza di Noè. Sfortunatamente gli altri sono più danneggiato del Diluvio universale, per cui restano chiaramente visibili solo alcuni ritratti
[…].”

(tratto da Mary McCarthy, Le pietre di Firenze, 1956)

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